Cosa si intende per “vera felicità”? E la si può davvero esprimere in azienda?
La mia esperienza personale è che se non è così non rendo. Ho fatto del mio lavoro la mia passione. E nonostante non sia sempre 7su7 h24 così, ho imparato a cogliere le opportunità di crescita o di trasformazione in tutto ciò che faccio. L’ho imparato allenandomi e decidendo in maniera lucida e consapevole che desideravo fortemente contarmela giusta, a proposito di me stessa e del mio stare nel mondo.
La motivazione intrinseca (esiste anche una motivazione estrinseca che però è molto meno potente) è ciò che mi anima nel chiedermi se quello che faccio va bene, è giusto e ha un senso per me.
E’ un lavoro impegnativo e che non lascia spazio a giustificazioni, ma, per quanto mi riguarda, estremamente nutriente e appagante, e mi riempie di gioia e di quella che per me è vera felicità.
Ecco che allora la prima domanda è proprio “in che senso vera felicità?”
“Vera” nel senso di autentica.
autèntico agg. [dal lat. tardo authentĭcus, gr. αὐϑεντικός, der. di αὐϑέντης «autore; che opera da sé»] 1. Che è vero, cioè non falso, non falsificato, e che si può provare come tale:
3. Nella filosofia esistenzialista, esistenza a., la vita vissuta nella consapevolezza della propria vocazione, in totale adesione.
Quindi la persona autentica è in grado di vivere la propria vita in modo pieno e felice, fregandosene di quello che pensano gli altri e seguendo ciò che sono i suoi valori, pensieri ed opinioni. Inoltre, non si fa problemi a mostrarsi per quello che è, proprio perché non è alla ricerca dell’approvazione di nessuno.
Ma ognuna di queste definizioni ha un comune denominatore: non ci viene data, fornita dall’esterno ma riguarda il Sé.
Quanta roba …direbbe qualcuno per essere autentici!
Non c’è più tempo da perdere. Il cambiamento o risveglio oggi ci chiede questo.
Quando in azienda si dice che siamo nel cambiamento, Internet of Things (Iot 79%) cloud computing (74%) e artificial Intelligence (52%), si sottovaluta quanto sia importante prima di tutto verificare il “terreno fertile”, lo stato di consapevolezza del singolo, il livello di gioia, passione e bellezza trepidante che anima il singolo collaboratore.
Questa è la direzione. E’ semplice, ma non è facile.
Tutto ciò attiva credenze, condizionamenti sociali e culturali che abbiamo. Primo fra tutti: il senso di colpa, subito a seguire, il concetto socio culturale che abbiamo di egoismo e, che sottende tutto, l’idea di libertà.
Come si fa ad essere autentici e perseguire la vera felicità?
Già ai tempi dell’antica Grecia “Conosci te stesso” era l’antica esortazione religiosa iscritta nel tempio di Apollo a Delfi. Conoscersi ed essere onesti con se stessi è dunque il primo passo verso l’autenticità: questo comporta essere disposti a vedersi per ciò che si è e per ciò che non si è, ad esprimere con sincerità le proprie emozioni, la rabbia come la gioia, la tristezza come l’allegria.
Personalmente la mia volontà è quella di aiutare le aziende a pensare prima alle persone poi ai processi, di aiutare gli individui ad ESSERE prima che a FARE e di guidarli con umiltà e competenza, nel rispetto del loro ciclo di vita.
Kernis e Goldman in una famosa ricerca A multicomponent conceptualization of autenthicity, theory and research partendo da Socrate, Aristotele e arrivando a Nietzche, Kierkegaard, Heidegger e Sartre descrivono l”autenticità” in 4 aspetti:
- consapevolezza di sé,
- elaborazione obiettiva
- comportamento,
- orientamento relazionale.
Quindi di nuovo:
- consapevolezza di sé: conoscere se stessi in zone d’ombra e di luce e volerci lavorare consapevolmente.
- elaborazione obiettiva: saper ragionare su se stessi in modo obiettivo, senza farsi illusioni e senza attivare meccanismi di autodifesa che distorcono la realtà
- comportamento: scegliere di comportarsi in modo onesto e naturale, in accordo con i propri sentimenti e le proprie inclinazioni
- orientamento relazionale: essere aperti, sinceri, affidabili nelle relazioni e capaci di intimità nelle relazioni più strette.
Kernis e Goldman indagano poi i vantaggi dell’ ”essere autentici” e tutto riporta ad uno stato di gioia o vera felicità: le persone più autentiche tendono anche a interpretare in modo più benevolo o a minimizzare comportamenti dell’altro che potrebbero essere letti anche in chiave negativa.
Sull’essere autentici, tuttavia, restano moltissime questioni aperte.
Per esempio: siamo più autentici quando, comportandoci, seguiamo le nostre emozioni, o quando ci accordiamo ai nostri valori? Ed è possibile che ci consideriamo più “autentici” semplicemente quando ci sentiamo più calmi, liberi, amorevoli ed entusiasti?
Se la risposta la chiediamo sempre e solo alla nostra mente razionale, avremo sempre uno stato di insofferenza, poichè non appartiene alla sola mente.
Suggerimento:
Il primo passo potrebbe essere osservare nel corpo fisico, nelle nostre emozioni e atteggiamenti quando ci sentiamo calmi, amorevoli, liberi ed entusiasti e chiedere alla mente di tacere, semplicemente evitando interpretazioni di tipo razionale, che ci allontanano dall’esperienza. Altresì aumentare i momenti in cui nella nostra quotidianità possiamo ricercare situazioni che amplificano e ripetano quello stare.
I nuovi talenti mettono la vera felicità al centro della loro vita
La Generazione Z (nati tra il 1996 e il 2000) non è disposta a scendere a patti proprio su un aspetto della vita: la felicità. In una ricerca dal titolo, What The world’s Young People think and feel della Varkey Foundation emerge come la nuova generazione metta la felicità al centro di tutto. Lo studio spiega cosa significa poi per un giovane essere felice. I fattori che la determinano sono soprattutto le relazioni umane, con amici e famiglia. Ma anche il “sentirsi soddisfatti nello studio e nel lavoro (questa è la risposta dell’89% degli intervistati). I Millennials invece, da uno studio ”Project: time off” riportato dalla Harvard Business Review sono la generazione che più di tutte è disposta a rinunciare alle vacanze per sopraggiunte esigenze aziendali (il 24% rispetto al 19 della Generazione X e al 17 dei Boomers). I millennials vengono definiti “martiri del lavoro” e Chamorro Premuzic, professore di Business Psychology della University College London con la sua tesi spiega che quello che differenzia davvero i Millennials dalle generazioni precedenti è il narcisismo. E per dimostrarlo offre i dati di un suo studio. Nel 1950 solo il 12% degli studenti di un college consideravano se stessi come “persone importanti”. Una percentuale che sale al 80% se ci spostiamo nel 1990. Pertanto una tipica frase dei Millennials “nessun altro può svolgere il mio lavoro mentre io non ci sono”, rientrerebbero in questo tipo di attitudine. Ecco spiegato lo spirito immolato nel rinunciare alle vacanze. La psicologa, Katie Denis, responsabile di un altro progetto di ricerca sul rapporto tra Milennials e vacanze, “Time Off” mette sul tavolo della discussione anche il tema della iperconnessione, che spiegherebbe anche la difficoltà dei Millennials a staccare la spina: «Sono la prima generazione sempre connessa. Dal primo giorno di lavoro iniziano già a ricevere email. Non hanno mai l’occasione di lasciare un luogo e dire: “Okay, per oggi è finita”».
Ci sono altri fattori da considerare, come la congiuntura economica. La crisi ha aumentato la paura dei lavoratori giovani di essere fatti fuori dall’azienda se non rispondono a determinati standard di “attaccamento alla causa”.
La Generazione Z sembra molto più concentrata sul proprio benessere e questo lancia un guanto di sfida alle aziende: se vogliono attirare i talenti migliori devono organizzarsi per offrire loro un ambiente di lavoro sereno. Interessante, a tal proposito, il Manifesto di Alexander Kjerulf, dove, in 25 punti, spiega quello che bisogna sapere per essere felici sul luogo di lavoro.
- La felicità al lavoro è una mia responsabilità. Anche se il capo, i dipendenti e i colleghi, contribuiscono alla mia felicità sul luogo di lavoro, la responsabilità del mio benessere è mia e soltanto mia.
- So che la mia felicità sul lavoro determina la mia felicità nella mia vita. Una cattiva giornata di lavoro non può essere totalmente scrollata di dosso quando si torna a casa. Mentre una giornata di lavoro buona in ufficio mi offre energia per trascorrere una grande serata. E una settimana di lavoro soddisfacente mi dà la carica per affrontare un weekend felice.
- So che la felicità sul lavoro non arriva dall’assenza di aspetti negativi in ufficio. Tutti i luoghi di lavoro hanno persone spiacevoli con cui avere a che fare, clienti troppo esigenti e altri fattori di stress. Quello che devi fare è ridurre più che puoi la negatività, ma non potrai mai del tutto eliminarla. Se aspetti che lo stress scompaia, non sarai mai felice.
- Dò prima degli altri. Se penso che gli altri non mi apprezzano, devo essere io ad apprezzare loro. Se gli altri non mi ascoltano, devo prestare prima io orecchio alle loro parole. Sono io a dare il buon esempio.
- Il miglior modo per essere felici a lavoro è rendere felici gli altri. Non avrebbe alcun senso lavorare per essere l’unica persona felice in ufficio. La felicità è contagiosa. E la perderei subito se fossi l’unico ad averla.
Non sto ad elencare tutti i 25 punti. Qui puoi leggere il Manifesto completo.
Vorrei però riportare al centro il tema l’attore protagonista: il singolo, il sé, il proprio centro.
La vera felicità è una competenza da allenare
Si pensa più facilmente alla felicità come un’emozione spontanea. Ma non è così.
Vediamo insieme che differenza c’è tra vera felicità e gioia.
La gioia è uno stato emotivo sicuramente positivo, ma non deve essere scambiata con la felicità
La gioia, secondo Barbara Fredrickson, psicologa dell’Università del North Carolina (Usa), due scopi essenziali:
- riduzione degli effetti dannosi delle emozioni negative, per riprendersi prima dalle loro conseguenze;
- l’allargamento degli orizzonti di pensiero, che aumenta la flessibilità, migliora l’elaborazione delle informazioni, ci rende più creativi.
«Paura o rabbia ci focalizzano su un solo elemento a cui reagire. La gioia, al contrario, fa vedere la foresta anziché l’albero: ci apre all’esplorazione, alle esperienze», afferma Anna Maria Meneghini, ricercatrice in psicologia all’Università di Verona.
La Gioia fa parte delle sei emozioni di base individuate da Paul Ekman e differentemente dalle altre, si tratta dell’unica emozione positiva rilevata nello studio condotto dallo psicologo statunitense.
La gioia è un stato emotivo che sembra essere estremamente collegato ad alcune caratteristiche della personalità di un individuo: chi è tendenzialmente estroverso e fiducioso in se stesso, secondo alcuni scienziati, è portato a sperimentare con più frequenza quest’emozione. Si riscontrano cambiamenti e diversità a livello fisiologico, oltre che cognitivo, l’organismo infatti si attiva, aumentando leggermente la frequenza cardiaca, portando un’irregolarità nella respirazione e aumentando il tono muscolare.
A livello cerebrale alcuni esperimenti hanno dimostrato che, in risposta a stimoli piacevoli, come per esempio immagini, ricordi, sane competizioni, i gangli della base subiscono un’attivazione particolare
Tuttavia, le modificazioni fisiologiche invece, sono ridotte rispetto ai cambiamenti che avvengono quando si sperimentano emozioni negative, come ad esempio la rabbia e la paura, questo perché le ultime due emozioni preparano il corpo a compiere azioni specifiche, come scappare o aggredire
La gioia e la felicità al contrario non necessitano di avere risposte immediate e limitate: i pensieri, le possibilità, le idee sono ampie e variegate.
Come ben sappiamo un’emozione ha vita breve, ma ha la capacità di modificare i nostri stati d’animo più complessi e duraturi, in particolare la gioia, ci predispone ai legami sociali, incrementa la formazione di idee creative alle quali attingere in caso di difficoltà.
Nel linguaggio comune, la gioia è associata ad un’emozione, uno stato passeggero. Tuttavia il suo significato originario è tutt’altro che effimero, dato che la sua lontana etimologia sanscrita rinvia al termine di yuj (lo stesso da cui deriva la parola yoga), generalmente tradotto come “unione dell’anima individuale con lo spirito universale”. C’è qui un senso di connessione tra il terreno e il celeste, dell’uomo con il divino e degli uomini tra loro; una dimensione sacra della gioia che si è persa nel tempo, soprattutto nella cultura occidentale.
Appena il legame viene ripristinato, la gioia investe indirettamente tutti gli aspetti della vita e ci riporta al concetto di gioia di vivere come sentimento edificante. Da una semplice emozione, essa si trasforma quindi in sentimento, in stato; diventa una manifestazione della reliance dell’anima individuale con una dimensione superiore. In questo modo la gioia invade tutto l’essere e connette ‘l’alto’ con ‘il basso’, lo spazio interno e quello esterno, il soggetto e l’oggetto, l’individuo e gli altri. Una distinzione semantica tra gioia e felicità (concetti spesso confusi) è necessaria. Nell’ambito della psicologia moderna in particolare, la ricerca sul tema della felicità prende una svolta decisiva a partire dagli anni ’80. Csikszentmihalyi si avventura nella riflessione e definisce la felicità come uno stato indipendente dalle condizioni esterne, ma dipendente “piuttosto da come esse vengono interpretate”, in quanto derivano dalla propensione degli individui verso gli interessi materiali e/o immateriali. Anche il premio Nobel per l’economia Daniel Kahneman, con il suo concetto di audit del benessere nazionale, ha avuto per primo il merito di avvicinare la psicologia all’economia. Ciò che la sua classificazione mette in luce è il gap esistente tra i risultati delle misure del benessere e quelle della performance economica, da cui si evince che il benessere materiale incide molto poco nella percezione della felicità. Tuttavia aziende che scelgono la positività organizzativa si possono misurare incrementi nelle dimensioni di performance e i dati sono sorprendenti: + 31% produttività, + 37% vendite, + 44% retention, + 300% innovazione e creatività. Si possono anche misurare decrementi nelle aree più costose e caratterizzanti in negativo della dimensione HR: -125% burnout, -66% malattia, -51% turn over.
La neuroplasticità del cervello a favore della vera felicità
Vorrei concludere questa riflessione riassumendo 4 punti essenziali che ci possono aiutare a sperimentare, nella nostra quotidianità, piccoli esercizi per allenarci alla vera felicità:
1. Il cervello con cui siamo nati può cambiare. Tecnicamente si chiama Neuroplasticità. Possiamo, dunque, insegnare ad un cervello “vecchio” o abituato in un certo modo, cose nuove.
2. Il cervello cambia se lo alleniamo a nuovi schemi di pensiero, come se fosse un muscolo. Possiamo in questo modo liberarci di abitudini e pensieri negativi e costruire la vera felicità
3. Siamo tutti tendenzialmente “cablati” per la negatività (conseguenza “evolutiva” della lotta per la sopravvivenza), ma possiamo ottenere enormi benefici se impariamo nuove modalità di reazione agli eventi e gestione della nostra energia personale quotidiana.
4. Il cervello è UNO e applica le stesse regole di funzionamento in ogni ambito. Che tu sia un dirigente, un manager, un impiegato, uomo o donna, una semplice persona alle prese con le sfide di questa vita, la ricerca della vera felicità vale per tutti e fornisce soluzioni, strategie e strumenti per il miglioramento in tutti i campi.
Se ti sei perso i precedenti articoli ecco i link:
. IL DIRE E LA COMUNICAZIONE EMPATICA E POTENZIANTE
. IL DIRE E L’AVERE SUCCESSO IN AZIENDA E NELLA VITA
. IL DIRE E IL RISPETTARE LE REGOLE IN AZIENDA E NELLA VITA
. IL DIRE IMPLICA IL VERBO SBAGLIARE
. IL FARE E LA ROUTINE DEL MATTINO
. IL FARE E LA MIA ROUTINE QUOTIDIANA
. Il FARE E IL CIBO CHE DA’ ENERGIA
. IL FARE E L’INTELLIGENZA CREATIVA IN AZIENDA
. L’ABBRACCIARE E L’INCLUSIONE LAVORATIVA
. LA CULTURA DELLA GENTILEZZA COME INVESTIMENTO
Se invece sei alla ricerca di un supporto, puoi contattarci e saremo felici di poterti accompagnare nello sviluppo del benessere organizzativo e dello sviluppo umano in azienda, attraverso il metodo Energyogant di myHARA, concreto e misurabile
Simona Santiani 3387438166 – info@myhara.it
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